Ventimila battute per l’attore emancipato
Antonio Attisani
Marie-José Mondzain e Jacques Rancière commettono un fatale errore di prospettiva quando parlano rispettivamente di «spettatore critico» e «spettatore emancipato» perché la questione sostanziale non è quella dello spettatore bensì quella dell’attore: il mondo ha bisogno di un attore emancipato – si tratti del professionista della scena o dell’attore sociale – per inoltrarsi oltre il moderno (e, naturalmente, il postmoderno).[1]
L’occasione per questa riflessione è stata offerta dal Centre d’études théâtrales di Louvain, con una suggestione molto forte derivante dalla scansione delle date. Il Centre è stato fondato nel 1968 e oggi festeggia i suoi quarant’anni, inevitabile dunque abbracciare nello stesso sguardo questo periodo di grandi trasformazioni del mondo e del teatro, e anche del nostro transito dalla giovinezza alla vecchiaia. Anche il tema che mi viene proposto di trattare, la specificità del teatro nel panorama culturale, tendo fatalmente a vederlo su questo sfondo esistenziale e storico.
Nel 1968, a vent’anni, diventavo un professionista della scena dopo due anni di Scuola del Piccolo Teatro di Milano. I nostri insegnanti avevano speso molti argomenti critici contro le più importanti avanguardie del tempo, accusate di civettare con filosofie irrazionali, di essere poco professionali e votate a un consumo d’élite. In particolare, oggetto dei loro anatemi erano il Living Theatre e Jerzy Grotowski – oltre ai tre grandi italiani allora emergenti: Carmelo Bene, Leo de Berardinis e Carlo Cecchi –, ma il risultato fu che la nostra attenzione si orientò verso queste figure, che diventarono oggetto delle nostre indagini più personali, se non segrete. Il modello di teatro proposto dalla casa madre, vale a dire la regia critica, sembrava a alcuni di noi rispettabile ma da considerare una sponda, una solida realtà da cui prendere le distanze per valorizzare altre dimensioni del teatro, per esempio il lavoro d’arte comune, la libertà rispetto alla letteratura drammatica, la responsabilità etica e creativa dell’attore e l’attrazione per una estetica non realistica, che recuperasse il meglio della tradizione comico-popolare italiana. Tutto ciò nel quadro, appunto, del tentativo di ridefinire la specificità, ossia la funzione del teatro in un mondo che non bastava più a se stesso e cambiava velocemente, in peggio e in meglio contemporaneamente.
Anche Jerzy Grotowski, che dapprima abbiamo conosciuto attraverso un libro di Eugenio Barba (Alla ricerca del teatro perduto, 1965), poneva in primo piano la questione della specificità del teatro rispetto al cinema, alla letteratura e agli altri media. Il suo «nuovo testamento del teatro» era la premessa di una concezione meno presuntuosa e universalistica, quella di un «teatro povero»,[2] ovvero essenziale, che caratterizzava un gruppo di giovani polacchi il cui leader, a meno di quarant’anni di età, avrebbe abbandonato il teatro degli spettacoli per ricercare quella essenza dapprima in pratiche di partecipazione e poi nell’attualizzazione di alcune antiche tradizioni.
Oggi la questione della funzione del teatro si pone ancora, ma ovviamente in un contesto mediale ancora mutato. Oggi vuol dire a quarant’anni di distanza, i quarant’anni che per la mia generazione sono tutta una vita professionale, ma vuol dire anche il corso di questi decenni. Nel flusso del tempo le cose cambiano lentamente, per gradi, e mai secondo una semplice progressione lineare. Per restare all’esemplare cammino di Grotowski ciò che si deve anzitutto notare è il fatto che ogni modificazione metodologica è dovuta a un’assoluta coerenza strategica, alla persistente ricerca dell’essenza. Grotowski procede sempre in modo empirico e scientifico, la verità per lui è dato di esperienza vissuta e tecnica: la poetica e le forme, persino l’etica e la morale, per lui non sono che epifenomeni di un cammino che obbedisce a una tensione, a una ricerca rigorosa e non a una chiara visione del punto d’arrivo o a un’utopia. Ecco perché la sua coerenza non consiste mai nel lanciare o partecipare alle mode ideologiche e teatrali del tempo e anzi – come dimostrano le sue interviste e i suoi scritti – egli è il primo a polemizzare con i “grotowskiani” e tutti coloro che tentano di utilizzarlo come un nuovo dispensatore di dottrina.[3]
Dunque la mia prima proposta per tentare una risposta alla questione della specificità del teatro è quella di fare ricorso al “testo Grotowski”, intendendo per testo non solo i suoi scritti, ma le tracce della sua opera (audiovisivi e riscontri critici) e il risultato del suo insegnamento. Ciò perché credo che il testo grotowskiano sarà importante per i giovani, attori e non solo, del XXI secolo almeno quanto gli scritti di Antonin Artaud lo sono stati nel XX (e, naturalmente, saranno scoperti e compulsati malgrado l’ignoranza di cui continueranno a essere oggetto da parte dell’istituzione teatrale). Per offrirli all’euristica dei futuri attori e attori sociali occorre procedere prima di tutto al loro restauro filologico, in quanto questi testi, per essere sottratti all’oblio, hanno bisogno di essere nuovamente tradotti e, quando possibile, collazionati con le relative editio princeps. Nei suoi testi è iscritta una riflessione continua sulla specificità del teatro e i suoi cambiamenti a partire dagli anni Sessanta e fino alla fine del secolo scorso.
Per comprendere meglio la pregnanza e l’attualità del pensiero di Grotowski è utile confrontarlo con alcune pronunce coeve e soprattutto, per cominciare, con quella di Guy Debord. Nella visione autenticamente profetica di quest’ultimo la vita si presenta come una immensa accumulazione di spettacoli: il vissuto si è allontanato in una rappresentazione che dal tempo della Società dello spettacolo (1967) a oggi si è imposta a tutto il mondo, diventando integrale e integralista. La vittima di questa nuova forma del capitalismo globale, definita da Debord e Grotowski con le medesime parole, è l’«unità della vita». Tuttavia l’atteggiamento dei due è molto diverso. Per Debord l’unica strategia efficace è il boicottaggio e in questo senso sia lui che i situazionisti riusciranno a assestare qualche colpo clamoroso al sistema della comunicazione, ma nel complesso si tratta di una strategia fallimentare, che da alcuni, pochi, viene perseguita fino in fondo, ovvero fino all’autoemarginazione e talvolta il suicidio, e da molti invece rielaborata nel senso di entrare nella società dello spettacolo (SDS), come autori e critici insieme, e divenendo di fatto i protagonisti del suo sviluppo. Per Grotowski, invece, il teatro essenziale è il luogo nel quale concretamente l’unità di vita si cerca e si pratica, un teatro della mutazione anche in rapporto alle sue stesse origini ateniesi, a quello spettacolo che, secondo Debord, dopo oltre duemila anni da genere è divenuto il nome e il paradigma del mondo.
Cosa è successo, dunque? Lo spettacolo, il «movimento autonomo del non-vivente» (Debord) ha coperto la realtà. La sua funzione principale è quella di far credere in falsi conflitti che cancellano quelli veri. Il partito dello spettacolo è oggi ultramaggioritario, anzi è una sorta di partito unico che ogni critica rinforza e al quale, per esistere, bisogna partecipare. Nella SDS quelli che una volta erano il lavoratore e poi il consumatore diventano spettatori, questa è la vera novità rispetto ai “sistemi dello spettacolo” che esistono in ogni epoca e civiltà. La nostra SDS, inoltre, è amata dalle sue vittime, e la servitù nei suoi confronti è assolutamente volontaria.
A di tutto questo ecco una filosofia che resiste: lo spettatore critico e lo spettatore emancipato sono membri a pieno titolo della SDS e tentano di correggerla dall’interno. Molto diversa, dall’inizio alla fine della propria carriera, è l’opera di Grotowski. Quella da lui proposta è una via del fare. A partire dal rifiuto e dalla contestazione sistematica di una postura intellettuale e puramente ideologica, Grotowski punta su ciò che si può fare nel teatro, ma non riguarda il solo teatro. Fare cosa? In questo senso il regista polacco utilizza gli stessi concetti che caratterizzeranno l’ultimo Deleuze, quello del superamento, gioioso e doloroso insieme, della critica. Fare è per Deleuze l’atto di creazione, atto o evento – si badi bene – e non racconto o rappresentazione; un esempio in tal senso per lui è il teatro di Carmelo Bene, ma non solo: anche nel cinema, nella letteratura e nella musica diversi autori del presente e del passato hanno prodotto questo tipo di resistenza, che non solo critica e difesa dal reale ma appunto ri-esistenza, nuova possibilità concreta di esistenza.
Sin dall’inizio, Grotowski, per parte sua, precisa che non ci si può “preparare” all’atto di creazione ma solo creare le condizioni che permettono il suo manifestarsi e queste condizioni sono riassumibili nel concetto di via negativa, del lavoro che pulisce il terreno, che libera l’attore dai tic e dagli stereotipi e gli permette di procedere all’incontro con le tradizioni senza mai cedere alla debolezza del sincretismo (arraffare frettolosamente ciò che dà un immediato senso di benessere materiale e spirituale), ma semmai nel senso della «corroborazione». Una scelta, questa, che non è nobile in sé, ma solo in relazione all’opera, al compimento. L’atto di creazione esige lucidità, cinismo al limite: il suo valore in quanto proposta di metodo dipende dalla qualità del compimento (invece nella SDS il grande commercio riguarda i metodi che garantirebbero una riuscita, vedi per esempio le scuole di teatro).
Se ciò accade, colui che fa, il poeta, non incontra uno spettatore (più o meno allucinato) ma un testimone, e un testimone è a sua volta un poeta perché non racconta ciò che ha visto e sentito ma lo riarticola in una nuova composizione.
L’atto di creazione è insieme domanda e risposta, non è che un mezzo, nel senso che articola una domanda autentica e individuale, indica le cause del problema e i propri limiti nel rispondere, mentre la risposta-mezzo è la creatività stessa (individuale e collettiva). L’atto di creazione è produzione di libertà. Grotowski diceva che occorre «creare esempi di libertà», di libertà compiuta, che implica e al tempo stesso trascende la tecnica. Ecco perché questo teatro non ha più nulla da spartire con lo spettacolo; anzi ne è probabilmente l’opposto.
Certo, a questo punto ci si può chiedere se ciò è possibile nella SDS, è una questione politica fondamentale, se si tratta di qualcosa di realizzabile in senso non élitario, non per una ristretta cerchia di genere, un consumo di nicchia. La risposta del partito integralista spettacolare è evidentemente negativa: chi non accetta la SDS è un mentecatto votato alla non-esistenza. Ma anche le istituzioni nel loro complesso sono complici di questa logica, al più il loro dibattito riguarda l’opportunità di infiltrarsi nella maggioranza o costituire un’aristocratica nicchia (di resistenza critica e consumo di buon gusto). Non partecipare a questo gioco, invece, significa anzitutto puntare sulle esperienze divergente che nonostante tutto esistono e che si manifestano, tra l’altro, nei diversi aspetti del teatro, vale a dire nella drammaturgia (dove la crisi e il superamento del dramma moderno sono diventate pagine imprescindibili sulla servitù volontaria), nella regia (basti pensare alle avventure del “grottesco” nel Novecento e alle sue ricche declinazioni locali) ma soprattutto nel lavoro dell’attore. Dico soprattutto perché l’attore non è solo un aspetto del teatro ma una condizione generale per il realizzarsi di qualunque progetto. Un attore emancipato è necessario a ogni atto di creazione, la produzione di libertà, si tratti di teatro vivente o di attività sociale, non si può ottenere avvalendosi di esecutori.
A fronte del quadro velocemente delineato, che impone di comprendere il presente (del teatro) come risultato di una storia e allo stesso tempo punto di partenza per liberarsi dalla fatalità storica, e per sfuggire alla genericità di coordinate puramente teoriche, passo a descrivere la mia personale operatività. Dato che non siamo onnipotenti, dobbiamo orientare le nostre limitate e declinanti energie a poche precise attività, se vogliamo consegnare qualcosa a chi proseguirà il cammino. In questo senso il mio primo impegno riguarda il “testo Grotowski”, ossia un lavoro filologico e di decostruzione amorosa che lo mette in relazione con altri significativi movimenti del pensiero. Abbiamo già evocato Debord per la sua straordinaria profezia e la sua sterile proposta ideologica, e Deleuze per l’approdo “oltre la critica” del suo pensiero. Dunque Debord può essere abbandonato e Deleuze invece merita di essere considerato come un elemento propulsivo da consumare in una fase che si protrae molto oltre.[4]
Si diceva del Deleuze degli ultimi anni, da Cos’è l’atto di creazione? (1987) e Critica e clinica (1993) in poi. È il Deleuze che si batte contro i “giganti della montagna” contemporanei, il saggio che ci ricorda come non sia la comunicazione a mancarci («il y en a trop»), ma la creazione, la sola cosa che possa resistere al presente, la stessa cosa che Grotowski chiama «fare la rivolta […] e non parlare della rivolta» (II, p 67). È un lavoro interminabile, che non si può preparare ma solo “per-formare”, contraddistinto dall’arrivo del pensiero alla festa in tempo di peste (comunicativa) dei corpi e dei volti umani.
Ecco dunque che il lavoro su testi e pensiero, sia in senso diacronico che in senso sincronico, non basta. Ogni studioso dovrebbe scegliere alcune pratiche di cui farsi osservatore-partecipante e impegnarsi nello scambio nelle due direzioni, vale a dire in un transito di esperienza e elaborazione culturale, di conquiste e principi tra la composizione scenica e la vita e i mestieri.
Per ciò che mi concerne, il primo luogo è il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Lì Grotowski ha consegnato il proprio sapere a due attori, “emancipati” di una nuova specie, condannati dal loro maestro e dal proprio talento a andare ancora più avanti. In effetti questi attori emancipati sono performer, non volgarmente intesi come attori che ignorano le leggi della drammaturgia e del teatro ma come autori, registi e attori insieme, guide, scrittori e organizzatori.
A questo punto, se ci si pone l’altra questione che fa da sfondo a questo nostro incontro, l’Europa, si deve riconoscere che le sue istituzioni culturali sembrano piuttosto votate a una integrazione, per quanto “plurale”, delle arti sceniche nella SDS; e che già nel senso comune della nostra patria sovranazionale teatro è sinonimo di comunicazione e rappresentazione. Dunque l’Europa non esiste per questo tipo di organismi (e non solo l’Europa, visto che il Workcenter, caso pressoché unico, non riceve un centesimo neppure dalle istituzioni italiane). Il luogo nel quale un collettivo di circa trenta persone di undici nazionalità, appartenenti a tre diverse generazioni, lavorano intensamente e a lungo, di tanto in tanto aprendosi al confronto pubblico, è la concretizzazione di un ossimoro, di una povertà assai ricca, un luogo nel quale si lavora sull’essenziale, ossia sulla riserva aurea di ogni tipo di teatro. L’obiettivo del centro di lavoro è la formazione (permanente) dell’attore-performer tra processo e composizione, secondo una prospettiva che è insieme artistica, culturale e di cittadinanza e che infatti si sostanzia anche in una produzione editoriale e di audiovisivi, di seminari e confronti con vari professionisti delle arti sceniche.
Il caso del Théâtre du Radeau è affatto diverso. Un atteggiamento assai simile nei confronti del teatro non comporta una medesima poetica, anzi, essendo la produzione di forme strettamente connessa alla propria storia, oltre che ai tratti del talento individuale, i risultati artistici sono quanto mai differenti. Eppure il riferimento fondamentale è alla creazione-resistenza e all’attore-performer. Diversa è l’articolazione del lavoro nel caso del Radeau piuttosto orientato verso lo spazio, lo spazio privato e pubblico della visione e dell’ascolto. Da ciò tutta una serie di apparenti eccentricità, come la Tenda, dove ogni spettacolo crea un luogo autonomo e diverso, oppure la straordinaria Fonderie, votata all’ospitalità e al confronto secondo coordinate che la rendono unica al mondo, o infine gli Accampamenti, autentici villaggio viaggianti che portano lo spirito della Fonderie e della Tenda insieme nel mondo.[5]
Anche tutto ciò è “troppo caro”, troppo eccentrico per la maggior parte degli operatori dello spettacolo e per le istituzioni teatrali (negli ultimi dieci anni, in Italia, abbiamo avuto il Radeau soltanto per tre giorni a Pontedera). Eppure questa anomalia continua e esistere, contraddicendo le leggi della SDS e dell’economia truccata che reggono il mondo. La diffidenza e la sostanziale chiusura dell’Unione dei Teatri d’Europa e di tutte le istituzioni, anche quelle votate allo studio e alla ricerca, nei confronti di queste esperienze esemplari (certo non le sole al mondo) non riescono a impedirne l’esistenza e anzi rendono confermano l’idea secondo cui nel divenire del teatro valgono assai più le eccezioni delle regole.
Nei secoli scorsi il teatro è stato il tempio dell’identità plurale europea, il luogo nel quale la poesia, il “canto” e il gesto mettevano in questione i discorsi del potere e la supremazia del logos rispetto al corpo vivente, mentre oggi il teatro è piuttosto lo specchio di una conservazione senza rischi e senza speranza, e ciò che accade in positivo accade malgrado il quadro istituzionale. Nel mondo d’oggi gli studiosi e i ricercatori, non hanno alcun potere decisionale se non per loro stessi; di conseguenza sarebbe meglio che anziché formulare vuote dottrine su come dovrebbe girare il mondo, si concentrassero su ciò che ciascuno può fare in prima persona e in quanto appartenente alla categoria. Molti sono i modi per sostenere la causa dell’atto di creazione, in ogni campo di attività; nel caso del teatro ci si potrebbe impegnare in un movimento di andata e ritorno tra pratiche come quelle cui ho fatto cenno e le nostre attività, l’insegnamento e la scrittura. Si potrebbe per esempio tenere un aggiornato registro delle ricerche più significative e programmare un confronto sistematico tra testimoni di esperienze diverse, basterebbe – per cominciare – rendere sistematica l’anomalia positiva di un incontro come questo. Ma si realizzi o meno un lavoro comune, ciò nulla toglie all’azione e alla responsabilità individuali. Per il sottoscritto un ideale sarebbe quello di vedere realizzata una interazione, se non una sintesi, tra la sapienza del processo che si incarna nel Workcenter e la maestria della composizione che si realizza con il Radeau. Si può obiettare che questo è un desiderio intellettuale, un sogno o al massimo un impulso teorico. Ciò che conta, in effetti, è l’approfondimento, a partire dalla sterminata e decisiva esperienza novecentesca, delle vicende del “corpo teatrale” nella storia e contro la storia. Solo a partire da questo punto nodale si può immaginare e cominciare a realizzare un superamento della SDS che riguardi attori e attori sociali – figure che implicano uno spettatore emancipato –, ovvero un territorio di scambio dell’unità di vita, un luogo non necessariamente pacifico dove si realizza una reazione a catena di atti di creazione scaturiti dalla ricerca e dalla lotta.
Novembre 2008-gennaio 2009
Note
[1] Dico questo nella massima stima e considerazione per la loro proposta teorica complessiva e penso anche che molte delle cose da loro dette a proposito dello spettatore potrebbero essere riferibili alla figura che qui chiamo attore. Resta il fatto che i due termini non sono sinonimi e che lo spettatore, anche critico o emancipato, accetta una sostanziale integrazione nella SDS. Ma non è questo il luogo per un ampio resoconto dei due studi. Cfr. M.-J. Mondzain, Homo Spectator, Bayard, Paris 2007, e J. Rancière, Le Spectateur émancipé, La Fabrique, Paris 2008.
[2] Towards a poor theatre esce in prima edizione nel 1968, in italiano nel 1970.
[3] Cfr. per esempio J. Grotowski, Farewell to the pupils (1969), «TDR», Summer 2008, 52:2, T198, pp. 18-30.
[4] Non dovrebbe stupire più di tanto che il teatro esprima una sostanziale alleanza con la migliore filosofia del tempo e insieme la possibilità del suo Aufheben nell’azione, proprio come è successo tra Gilles Deleuze e Carmelo Bene. I temi della fratellanza tra i due e del superamento del pensiero del primo da parte dell’attore italiano ha lasciato una propria traccia indelebile in C. Bene, G. Deleuze, Superpositions, Editions de Minuit, Paris 1979.
[5] I lettori francofoni possono contare su alcuni ottimi saggi sul Théâtre du Radeau: Jean-Paul Manganaro, François Tanguy et le Radeau, P.O.L., Paris 2008; Marie-Madaleine Mervant-Roux, Le ré-imaginement du monde. L’art du Théâtre du Radeau, in La scène et les images – Les voies de la création théâtrale, a cura di Béatrice Picon-Vallin, CNRS, Paris 2001, pp. 362-387; Bernard Noël, si veda soprattutto il suo ultimo articolo, Le Radeau, in «Mouvement», cit., p. 87; Bruno Tackels, François Tanguy et le Théâtre du Radeau, Les Solitaires Intempestifs, Besançon 2005, e En eaux troubles, in «Mouvement», 48, Juillet-Septembre 2008, pp. 84-89; e il dossier della rivista «Fusées», 6, 2002, interventi di F. Tanguy, Fabienne Killy, Jean-Paul Manganaro, Jean-Luc Nancy, Charles Pennequin, pp. 84-128. Chi legge solo l’italiano si deve accontentare di A. Attisani, Trasumanar. La composizione scenica secondo François Tanguy e il Théâtre du Radeau, EIP, Torino 2008.