Sulla condizione dei migranti nel capitalismo assoluto
In una conferenza pronunciata il 24 dicembre 2017 per la radio nazionale canadese, il giurista François Crépeau, già relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani dei migranti nel mondo, ha espresso l’opinione che «niente impedirà mai alla gente di emigrare» se non la violenza estrema e neppure questa sarà capace di arrestare totalmente i movimenti migratori, che da sempre fanno parte della condizione umana [1]. A suo dire è l’istituzione frontaliera che trasforma la migrazione in un problema senza soluzione e in un affare di violenza.
Questo testo è apparso sul n. 19, 2019 della rivista francese Les Possibles e riprende i contenuti della conferenza che Étienne Balibar ha tenuto il 22 ottobre 2018 all’Écomusée du Fier monde di Montréal con il titolo Le droit à la circulation et de l’hospitalité comme droits fondamentaux. Su autorizzazione dell’autore, che ringraziamo, pubblichiamo il testo nella traduzione di Alessandro Simoncini .
La violenza delle frontiere e il dramma dell’erranza
Si può concordare con questa tesi generale, che prende in considerazione la situazione attuale, alla luce della storia dell’umanità. Ma occorre tenere in considerazione anche il fatto che si verificano mutamenti qualitativi che fanno sorgere una nuova morfologia e nuovi problemi politici. Questi mutamenti toccano in particolare lo scontro tra la mobilità umana, da una parte, e dall’altra i mezzi istituzionali per imbrigliarla, tra i quali troviamo soprattutto le frontiere. Queste trasformazioni sono oggetto di numerosi studi, tra cui quelli di Sandro Mezzadra e dei suoi collaboratori, che fanno della frontiera un “metodo” per decifrare la mutazione dei rapporti sociali e i cambiamenti di funzione del “politico” nell’epoca della mondializzazione.[2] Una delle grandi poste in gioco da cui dipende il futuro dei regimi e la loro qualità democratica, nella congiuntura attuale non consiste solo nel sapere come evolveranno i flussi migratori che provengono dal “Sud globale”, ma nel sapere quale posizione alla fine prenderà la popolazione dei paese del “Nord” più o meno recentemente “sedentarizzata”, o piuttosto in quali proporzioni essa si dividerà sul significato delle migrazioni e sul modo di trattarle. Mi è capitato di scrivere che il futuro della nostra “civiltà” dipenderà dall’evoluzione di simili questioni.[3]
Nel Mediterraneo o nel golfo del Bengala, non è abusivo parlare di tendenze genocidarie contro la popolazione errante che si trova confinata tra barriere ostili sempre più insormontabili: dal rifiuto all’ingresso e dall’espulsione si passa all’eliminazione e da qui allo sterminio, non certo proclamato come obiettivo politico ma organizzato de facto tramite il rimpallo di responsabilità, il rifiuto degli obblighi internazionali (compresi quelli del diritto marittimo) e soprattutto lo smantellamento sistematico delle imprese di soccorso messe in opera dalle associazioni umanitarie: smantellamento il cui esito è perfettamente prevedibile (come ha tragicamente mostrato il blocco della nave Aquarius).
Ma tutto questo non è che la parte più visibile (anche se resta in parte dissimulata) di una catena di violenze e di pratiche di eliminazione che si esercitano lungo tutto il percorso migratorio, consegnando gli erranti alla brutalità dei passeurs, degli stupratori, degli sfruttatori, dei signori della guerra o delle milizie, delle forze armate di Stato, tanto quelle “sovrane” quanto quelle “fallite”.
Per completare il quadro, devo ora introdurre un aspetto istituzionale che Jérôme Valluy ha giustamente definito il grande rovesciamento del diritto d’asilo.[4] Non dimentichiamo che, anche se sotto condizioni che possiamo considerare restrittive, il diritto d’asilo fa parte degli obblighi internazionali degli Stati in virtù della Convenzione di Ginevra del 1951 e dei testi successivi che l’hanno completata. Le pratiche attuali, tuttavia, sono riuscite a trasformare de facto il diritto d’asilo in uno strumento di eliminazione e di respingimento degli esseri umani nell’erranza indefinita, soprattutto a partire da due fattori. Innanzitutto c’è il raddoppio “a cascata” delle barriere e dei punti di controllo “sovrani” che non costituiscono più una sola frontiera ma una successione di ostacoli scaglionati lungo tutto l’asse Nord-Sud, da entrambe le parti del Mediterraneo. La violenza si dissemina così intorno a “frontiere” teoriche.
Quelle che si vedono emergere sono zone di frontiera, divenute indistinguibili dai territori stessi, e regioni di insicurezza per centinaia di migliaia di esseri umani in condizione di erranza. L’intera regione mediterranea ne è un buon esempio, ma anche il Sahel africano, l’America latina intorno ai focolai di “guerra civile” in Colombia e Venezuela, il sud-est asiatico intorno al golfo del Bengala, ecc. D’altra parte gli Stati trasformano masse di migranti respinti, poi cacciati nei punti di raccolta delle periferie (come in questo momento a nord di Parigi), in rifugiati senza possibile rifugio, poiché la loro condizione è stata precedentemente “illegalizzata”.
Questo ci porta a ricercare un superamento dell’opposizione tra le due categorie per mezzo di un nome attribuibile collettivamente a tutti quelli che, oggi, cercano di muoversi e sopravvivere nel cuore dei nostri territori nazionali, sui loro confini fortificati o nelle zone di insicurezza che li includono. Molte associazioni di solidarietà utilizzano il nome di profughi, che richiama il fatto di trovarsi ormai in una terra straniera ostile o accogliente. Io preferisco impiegare quello di erranti, per mettere l’accento sull’instabilità e sulla massima insicurezza della condizione di chi non è solo alla ricerca di soccorso e ospitalità, ma è respinto lontano dalle coste e dai porti e perseguitato dai poteri statali. Il centro della questione, tuttavia, è la trasformazione di certi stranieriin nemici comuni del sistema degli Stati (e soprattutto dei più prosperi, quelli del “Nord” del pianeta, tra cui naturalmente molte nazioni dell’emisfero Sud: Australia, ecc.). A questa trasformazione – che sta distruggendo conquiste della morale e del diritto già considerate fondamentali – contribuiscono quotidianamente la paura e l’odio dello straniero “errante”: passioni tristi che fanno scivolare il nazionalismo verso una nuova forma di razzismo generalizzato.
Un nuovo regime migratorio? La “parte mobile dell’umanità”
Le analisi relative all’evoluzione delle migrazioni, e alla proporzione degli esseri umani che si trovano in situazione di mobilità volontaria o forzata in rapporto ai loro luoghi d’origine, non concordano tra loro. Forse perché non si riferiscono alle stesse categorie di popolazione. Secondo François Crépeau questa proporzione è stabile: “I numeri oggi sono alti, ma rappresentano in media il 3 per cento della popolazione mondiale. Ci è stato detto da antropologi e sociologi che questa era la percentuale 50 anni fa, e che questa era la percentuale 100 anni fa: la migrazione costituisce la nostra costante”. Ma Crépeau aggiunge che questo potrebbe cambiare con l’arrivo delle “migrazioni climatiche”, scatenate dal surriscaldamento del pianeta con le sue conseguenze sull’abitabilità di vaste regioni del globo. Da parte sua, dopo aver evocato “l’accelerazione vertiginosa” della crescita demografica dell’umanità nell’ultimo mezzo secolo e la sua localizzazione preferenziale nell’ “urbanizzazione galoppante” dei paesi in via di sviluppo, Mireille Delmas-Marty conclude che “la mobilità umana è già aumentata più velocemente della popolazione, che si tratti di mobilità volute o forzate”.[5] Forse, se si ha cura di distinguere quanto nel regime migratorio dipende da un cambiamento quantitativo e quanto da una modificazione qualitativa, queste contraddizioni sono solo apparenti. Dal punto di vista della lunga durata, l’umanità è entrata in un nuovo tipo di flusso che modifica la sua ripartizione tra nomadi e sedentari e il senso stesso di queste parole. Dopo la decolonizzazione il sensodelle migrazioni principali si inverte: diviene maggioritariamente Sud-Nord dopo essere stato per secoli Nord-Sud. Ma occorre subito apportare un importante correttivo a questa tesi. Si sa bene, infatti, che la maggior parte degli spostamenti di popolazione avviene oggi all’interno dello stesso Sud. Nondimeno esiste una nuova realtà postcoloniale (ideologicamente percepita come choc di ritorno dell’imperialismo), che pone in modo inedito la questione dell’ “accordo” (settlement) tra vecchi e nuovi paesi di emigrazione e di immigrazione.
Questo genera le ipotesi capziose ben simbolizzate dall’idea della “grande sostituzione” o ben illustrate dalle profezie di universitari-giornalisti come Stephen Smith nel suo La ruée vers l’Europe: La jeune Afrique en route pour le Vieux Continent, di cui il presidente Macron ha tessuto l’elogio prima che i demografi seri ne confutassero totalmente le basi.
Ciò che sembra caratterizzare la nuova configurazione degli spostamenti di popolazione è al contempo la molteplicità delle cause e la somma degli effetti. È per questo che abbiamo bisogno di un’accurata fenomenologia delle situazioni che “destabilizzano” e “sradicano” i gruppi umani per mettere sulla strada dell’esilio individui rappresentativi di tutta una parte dell’umanità che, nello stesso tempo – in un modo o nell’altro -, è composta da scampati alla violenza e all’eliminazione. In questa fenomenologia devono comparire: l’estensione delle zone di morte del pianeta, la cui origine si situa principalmente nella guerra civile o nella persecuzione delle minoranze, ma anche nelle catastrofi sanitarie (Siria, Myanmar, Colombia, Venezuela, Africa centrale, ecc.); la loro parziale connessione con le zone di collasso dello Stato, dovute in particolare agli interventi imperialisti (Iraq, Libia); e soprattutto gli effetti della nuova accumulazione per spossessamento (per dirla con David Harvey), che la scrittrice e politica maliana Aminata Traoré ha giustamente comparato a una “guerra economica” contro le popolazioni africane che vivono di pesca e di agricoltura.
A tutto questo va ad aggiungersi la devastazione climatica. Per quanto ci riguarda, il punto importante è che gli effetti di questi processi di violenza politica o economica hanno cessato di essere solamente locali. La globalizzazione stabilisce una catena continua tra l’economia della violenza e il regime delle migrazioni. Nella sofferenza, essa genera ciò che io chiamo una “parte mobile dell’umanità”.
Questa parte è invisibilizzata dalla clandestinità alla quale si trova condannata, ma diventa sempre più visibile (non senza straordinarie deformazioni di prospettiva) tramite la violenza della repressione di cui è oggetto, repressione che moltiplica assembramenti di fuggiaschi ridotti in miseria sui marciapiedi delle città, nelle “giungle” peri-urbane o nelle vicinanze dei porti e dei posti di frontiera. Il lavoro delle associazioni di aiuto e soccorso si adopera per accrescere questa visibilità, correggendo la deformazione ad essa correlata. L’immagine che ne risulta non è quella di una classe (e tuttavia i migranti contribuiscono in modo importante alla riproduzione di una forza lavoro sovra-sfruttata); non è nemmeno quella di una razza (ma non c’è alcun dubbio che, sempre di più, le stigmate postcoloniali e xenofobe si concentrino proprio sui migranti per farne degli oggetti di paura e di odio).
Si può prendere a prestito da Antonio Negri et Michael Hardt la categoria di moltitudine, a condizione di non “generalizzare” abusivamente: gli erranti sono tra il 2 e il 3% della popolazione mondiale, ma questa “minoranza” è concentrata in certi punti (o piuttosto su certe rotte), ed è altamente rappresentativa dell’era della pericolosa instabilità nella quale entra l’umanità. Essa ci pone di fronte a un dilemma fondamentale: come trattare le conseguenze del fatto che durante il tragitto migratorio l’umanità entra in un nuovo rapporto con i suoi territori (qualcosa che, , senza timore di essere contaminati dal suo programma politico, si potrebbe chiamare con Carl Schmitt un nuovo nomos della terra) che non restituisce l’immagine di una regolamentazione, ma assomiglia piuttosto a uno stato di eccezione normalizzato? E come l’umanità “governa” oggi – come governerà domani – la sua mobilità, la sua distribuzione tra sedentarietà e nomadismo, la sua divisione tra condizioni di sicurezza e condizioni di erranza?
Questo ci rinvia subito a una questione di metodo: infatti se con ogni evidenza non esiste alcuna conciliazione immediatamente possibile, “oggettiva”, tra il punto di vista dall’alto – quello degli Stati e delle agenzie internazionali che amministrano la ripartizione degli erranti attraverso i loro “saperi-poteri” – e il punto di vista dal basso – quello degli esseri umani “senza Stato” (Hannah Arendt) o privi della protezione degli Stati e trasformati in “non persone” (Alessandro Dal Lago) – è ancora più difficile sapere se può esistere, al di fuori degli Stati stessi, un punto di vista comune agli esseri umani che si trovano ad accogliere (o a rifiutarsi di accogliere) migranti e rifugiati e quelli che si trovano ad arrivare, accolti più o meno durevolmente o al contrario respinti, cacciati, eliminati. Questi punti di vista sono inconciliabili, sono antitetici? Qual è il “dissidio” («le différend» per dirla con Lyotard) che non permette loro di trovare un linguaggio comune? Per cercare di radicare la questione in una problematica storica globale, mi sembra utile combinare la nozione post-schmittiana di nuovo nomos della terracon un ritorno alla categoria marxiana di “legge di popolazione” del capitalismo.
La “legge di popolazione” del capitalismo e la concorrenza delle precarietà
La globalizzazione attuale non è che la fase di un processo iniziato molti secoli fa. Rappresenta una fase transitoria, niente affatto terminale, di questo processo. Ma è anche un punto di flessione, che si può collegare all’emergenza di un “capitalismo assoluto” al quale la finanziarizzaione permette di non avere a che fare che con se stesso o di incorporare le sue stesse condizioni di riproduzione, anche se in modo profondamente eterogeneo e disfunzionale. La globalizzazione ci pone di fronte a una doppia impossibilità: quella di trattare il problema politico (e antropologico) che genera l’erranza migratoria del XXI secolo in un modo puramente morale o “civico”, cioè universalista, astraendo dal modo di dominio capitalista che mette in movimento le masse e le utilizza o le “getta” come inutilizzabili o eccedenti a seconda dei casi e dei momenti; quella di analizzare i meccanismi demografici del capitalismo in una prospettiva puramente “classica”, non solo senza riferimento all’imperialismo o alla colonizzazione-decolonizzazione, ma senza riguardo ai “paesi emergenti”, alla finanziarizzazione, ai vincoli climatici. Da questo punto di vista il ritorno a Marx è quindi un punto di partenza, ma non può costituire un punto d’arrivo. Deve essere effettuato nella prospettiva di una transizione verso un nuovo genere di teoria critica.
Il cuore della teoria di Marx sul “rapporto sociale capitalista” è la correlazione che lui stabilisce tra la “legge di accumulazione” (o di riproduzione allargata) del capitale e la “legge di popolazione” che ne costituisce l’inverso. In polemica costante con le tesi di Malthus, questa correlazione è esposta nella sezione VII del libro primo del Capitale (capitolo 23 della traduzione francese). L’interesse e la difficoltà di questa teoria risiedono nell’adeguamento di due categorie logicamente e storicamente eterogenee, ma che Marx riesce a presentare come due facce della stessa medaglia: da una parte l’esercito industriale di riserva, categoria economica relativa all’alternanza di lavoro e disoccupazione, corrispondente ai cicli di espansione e contrazione della produzione e agli effetti antitetici delle trasformazioni tecnologiche; dall’altra la sovrappopolazione relativa, categoria demografica e antropologica corrispondente alle fasi della distruzione dei modi di vita “tradizionali” attraverso l’estensione del capitalismo (a questo proposito Marx distingueva una sovrappopolazione “fluttuante”, eccedente sul lavoro reale ma potenzialmente sfruttabile, da una sovrappopolazione “latente”, costituita in particolare dalle donne e dai bambini, e da una sovrappopolazione “stagnante” molto più considerevole, nella quale egli classifica i contadini o gli artigiani del “centro” e della “periferia” in via di colonizzazione, destinati – a più o meno breve scadenza – ad essere strappati dai modi di produzione pre-capitalisti).
La questione fondamentale consiste nel sapere se l’articolazione delle due nozioni e dei processi ad esse correlate (ciclo del lavoro, “liberazione” delle vite umane senza risorse) ha un carattere funzionale dal punto di vista del capitalismo stesso. Non si può dire che non ce l’abbia per niente: come dice François Crépeau “lavorano tutti”; più esattamente quelli che sopravvivono al “passaggio” trovano sempre un posto (“il mercato ha bisogno di loro”). Ma come già spiegava Marx, la sovrappopolazione e la formazione dell’esercito industriale di riserva sono anche i mezzi fondamentali di cui il capitale dispone per opporregli uni agli altri detentori della forza lavoro. Non si tratta di una regolazione, ma di uno squilibrio che ha una dimensione politica in quanto economica. Del resto è per questo che l’adeguamento delle due categorie è tanto importante per Marx: contiene la chiave di una riflessione sul modo in cui il capitalismo decompone tendenzialmente la “classe”dei produttori salariati proprio mentre la riproduce; e quella di una riflessione conseguente sugli ostacoli strutturali che possono impedire ai proletari di costituirsi immediatamente in classe “per sé” (unificata, organizzata nella lotta contro il capitale), superando la concorrenza tra gli individui e i gruppi che la compongono. L’unità della classe sfruttata è fondamentalmente aleatoria e la parola d’ordine “proletari di tutto il mondo unitevi!” non può avere effetti pratici per il solo fatto di essere logicamente coerente.
In tutto questo c’è una base analitica che conserva certamente grande valore ma a condizione che si tenga simultaneamente conto degli effetti di accecamento che essa comporta, offrendo al nazionalismo la possibilità di una rivincita nella “sinistra” politica. Lo si vede quando alcuni politici e alcuni teorici si richiamano al “marxismo” (o alla tradizione del movimento operaio) per dichiarare che è nell’interesse dei lavoratori rifiutare o limitare l’ingresso dei migranti e dei rifugiati nel territorio nazionale, poiché quel’ingresso alimenta la formazione dell’“esercito industriale di riserva” che, a sua volta, permette la compressione dei salari e minaccia i diritti sociali. La debolezza di Marx consiste proprio nell’indurre a pensare (per contrastare il malthusianismo) che i movimenti di popolazione (i quali sono anche inegualmente distribuiti in base al genere e alla razza) siano unilateralmente “al servizio” delle fluttuazioni dell’esercito industriale di riserva, senza troppo porsi la questione della loro autonomia relativa e delle “contro-tendenze” che essi imprimono alla lotta di classe. Delle migrazioni si vede l’effetto di arretramento sulla “classe” stessa e non l’effetto di antagonismo che può favorire il suo sviluppo virtuale.
La questione fondamentale, che possiamo chiamare biopolitica nel senso in cui certi marxisti hanno riconfigurato questa nozione di Foucault, è quella delle forme (o modalità) nelle quali si presenta oggi la “sovrappopolazione relativa” come fattore di precarietà del lavoro e della forza lavoro stessa, con effetti localidi “sovrappopolazione assoluta” che comportano l’emergenza di masse in eccedenza rispetto ai rapporti istituzionalizzati tra domanda ed offerta: sono gli “uomini inutili” di cui parla l’economista Pierre-Noël Giraud, passibili di diventare gli “uomini usa e getta” (hommes jetables) del filosofo Bertrand Ogilvie.[5]
Tra queste forme di precarietà ne esistono duetendenzialmente disgiunte, tra cui ci sono vie di mezzo, che rientrano nell’esperienza di molti individui, ma che restano profondamente eterogenee e che quindi non rientrano nel continuum per estensione graduale dell’esercito di “riserva” del capitale descritto da Marx. Con la terminologia e le analisi di Robert Castel (Les métamorphoses de la question sociale. Une chronique du salariat, Fayard 1995), chiamo la prima forma désaffiliation, perché indica la precarietà del “centro”successiva al pieno impiego relativo dell’economia keynesiana. Questa forma di precarietà- si accompagna a una decomposizione progressiva dei diritti sociali e dei servizi pubblici, i quali assicurano l’ “integrazione” (conflittuale ma reale) degli operai e degli impiegati nel cosiddetto “Stato sociale”, che – va sottolineato – è sempre definito su base nazionale. Questa désaffiliation tocca in particolar modo le banlieues o i “quartieri” nei quali regna una disoccupazione diffusa che esclude dalla comunità i lavoratori (e soprattutto i giovani) di origine straniera, ma non solo quelli. La désaffiliation diventa una condizione sociale generale. Con la terminologia di Pierre Bourdieu et Abdelmalek Sayad, chiamo sradicamento la seconda forma di precarietà: la precarietà dei migranti e degli erranti determinata dalla loro separazione dai modi di produzione e di vita precapitalistici (generalmente collocati nella “periferia” dell’economia-mondo). Questa forma di precarietà è parte integrante di quell’espulsione in cui Saskia Sassen ha rinvenuto la principale caratteristica del capitalismo finanziario nell’epoca della globalizzazione postcoloniale (un fenomeno che riguarda al contempo gli umani e l’ambiente). [7]
Désaffiliatione sradicamento creano due tipi di precarietà – una tendenzialmente sedentaria e l’altra tendenzialmente nomade –, che entrano in concorrenza tra loro e hanno rapporti antitetici al territorio come ai sentimenti di appartenenza ad esso legati. Queste due forme di precarietà sono distribuite in modo diseguale nelle due regioni del mondo che fino a poco tempo fa chiamavamo ancora “Nord” e “Sud”. Si tratta però di una distribuzione più strutturale che puramente geografica, poiché la loro stessa territorializzazione è mobile. Evidentemente una simile “concorrenza tra precarietà” determina i nuovi valori di nozioni come “nazioni”, “razze”, “classi”, “popoli”. Questa concorrenza rientra nelle logiche occupazionali del capitale solo al prezzo di enormi disfunzionalità, di costi umani sproporzionati e forse anche di una divergenza incontrollabile degli effetti politici. Finché non ne avremo compreso e completamente analizzato le forme, non potremo affrontare collettivamente le questioni di solidarietà umana e di classe da cui dipende la possibilità di resistere alle strategie del mercato e degli Stati.
Note
[1] F. Crépeau, Why nothing will stop people from migrating, intervista alla CBC Radio (Canada Broadcasting Corporation), 24 dicembre 2017.
[2] S. Mezzadra, B. Neilson, Border as Method, or the Multiplication of Labor, Duke University Press, 2013; tr. it., Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il Mulino, 2014.
[3] E. Balibar, Pour un droit international de l’hospitalité, Le Monde, 16 août 2018; tr. it., Per un diritto internazionale dell’ospitalità, in «Il Manifesto», 12 agosto 2018.
[4] J. Valluy, Rejet des exilés. Le grand retournement du droit de l’asile, Éditions du Croquant, 2009.
[5] F. Crépeau, op. cit.; M. Delmas-Marty, Faire de l’hospitalité un principe, in «Le Monde», 12 avril 2018.
[6] P.-N. Giraud, L’homme inutile. Du bon usage de l’économie, Odile Jacob, 2015 ; B. Ogilvie, L’Homme jetable. Essai sur l’exterminisme et la violence extrême, Éditions Amsterdam, 2012.
[7] P. Bourdieu e A. Sayad, Le déracinement. La crise de l’agriculture traditionnelle en Algérie, Les Éditions de Minuit, 1964 ; S. Sassen, Expulsions. Brutalité et complexité dans l’économie globale, Gallimard, 2016.[
[cite]