Testimoni informati su fatti politici
Bruno Accarino
Incontro tra giganti, è il caso di dire, ma anche tra una vittima e un carnefice, sia pure indiretto. Il semi-ebreo Hans Blumenberg rimase nascosto, dopo la fuga da un campo di concentramento, fine alla fine della guerra, Carl Schmitt fu internato due volte sotto l’accusa di collaborazionismo e poi rilasciato. Stando a più di un attestato, il rappresentante americano dell’accusa, tale Kempner, a cui le autorità alleate avevano affidato l’audizione di Schmitt, non doveva essere particolarmente attrezzato alla bisogna: quel vecchio navigatore di mari burrascosi, dalla cui personalità Kempner era peraltro soggiogato, se lo cucinò a suo piacimento. Altra faccenda è se i tre grandi crimini del processo di Norimberga – guerra di aggressione, crimini di guerra e crimini contro l’umanità – andassero a costituire un’intelaiatura giurisprudenziale solida e inattaccabile – molti dubbi serpeggiavano anche tra gli alleati, al di là degli strumentali sofismi autodifensivi dei gerarchi nazisti. Schmitt aveva inoltre, del rapporto tra vincitori e vinti, un senso letterariamente raffinato e doloroso, al quale attinse poi in sede autobiografica e memorialistica: e lì, in una Germania avviata alla spartizione territoriale della guerra fredda, vincitori e vinti avevano identità precise.
Salvifico esorcismo
Di tutto questo, nel carteggio Blumenberg-Schmitt degli anni 1971-1978, non c’è quasi traccia, se non per il fatto che i curatori rendono disponibile, nei materiali che accompagnano l’epistolario, un breve testo inedito di Blumenberg nel quale quest’ultimo si toglie lo sfizio di cogliere Schmitt in reato flagrante di incoerenza: quando infatti viene all’ordine del giorno la possibilità di dare informazioni delatorie su colleghi giuristi altrettanto coinvolti, Schmitt denuncia come militarista e bellicista un testo del giurista ebreo Erich Kaufmann (fuggito in Olanda nel 1938) del 1911 (!). Schmitt, che non fu avaro di pronunciamenti antisemiti, nel 1936 – osserva Blumenberg – era stato inflessibile sull’opportunità di citare autori ebrei, anche solo come autorità «puramente scientifica». Niente citazioni: se proprio non si può evitare, aveva proposto Schmitt, si aggiunga la denominazione «ebreo», ne verrà fuori comunque «un esorcismo salvifico».
Vicende che si sottraggono ad un regime discorsivo accademicamente paludato. Il quale ha però il sopravvento nel tono e nello stile argomentativo delle lettere, sempre improntate a grande cortesia, al massimo si lavora di fioretto su squisitezze di filologia biblica.
Tra i due si era sviluppata, a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del secolo scorso, una controversia a distanza sul ruolo, sulla funzione e sul destino della teologia politica. Per Blumenberg il testo di riferimento è La legittimità dell’età moderna, per Schmitt tanto la giovanile Teologia politica (1922), poi rivista, quanto, soprattutto, la Teologia politica II (1970), e sembra che ne avesse progettato una terza. Blumenberg smonta il teorema della secolarizzazione additando il suo attorcigliarsi in vere e proprie «metastasi terminologiche» e la superfetazione di analogie improbabili. Secondo quel teorema, la moderna etica del lavoro è l’ascesi monacale mondanizzata, la rivoluzione mondiale è l’attesa della fine dei tempi secolarizzata, il presidente della repubblica è il monarca secolarizzato.
L’errore consiste, secondo Blumenberg, nel presupporre un’unica sostanza, la storia, sulla quale la perdita della trascendenza avrebbe operato l’effetto della secolarizzazione. Ma in questo modo si spalancano le porte ad un equivoco di rango superiore, che fa coincidere mondanizzazione e secolarizzazione: senonché, già Hannah Arendt aveva sostenuto che, con la secolarizzazione, il mondo viene perduto e nient’affatto riconquistato. La mondanità dell’età moderna non può essere descritta, insiste Blumenberg, come recupero della coscienza della realtà quale era esistita prima dell’era cristiana della storia. Il teorema della secolarizzazione deforma l’autenticità dell’età moderna facendone un relitto, un residuo nel processo che vede la religione ritirarsi dal mondo. Ne esce impoverita e stravolta la grande cesura con il Medioevo, che Blumenberg ha saputo invece ascoltare in tutto il suo travaglio.
Lasciate a briglia sciolte, le analogie e le assonanze acquisiscono un carattere di ovvietà e nascondono quanto di azzardato contengono. Così, il postulato dell’uguaglianza politica di tutti i cittadini avrebbe secolarizzato il precedente concetto dell’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio; o anche: le concezioni fondamentali del nostro diritto penale si muoverebbero sulla traiettoria di una teologia secolarizzata e implicherebbero un concetto di colpa mutuato da una situazione sacra. Nel caso specifico di Schmitt, il caso di emergenza e la situazione eccezionale nelle vicende politiche assumono, a suo stesso dire, un ruolo analogo a quello del miracolo in teologia. Quasi alla moda è diventato poi, denuncia Blumenberg, il vezzo di interpretare il marxismo come un progetto di secolarizzazione sia del paradiso biblico che del messianismo apocalittico.
Ecco perché un processo come la secolarizzazione, strettamente e tecnicamente riferito all’espropriazione dei beni («Tous les biens ecclésiastiques sont à la disposition de la nation»: così l’Assemblea Nazionale francese del 1789) viene usato per costruire una storia concettuale come schema degenerativo. Nell’istante aurorale vi è un che di originario senza vuoti e senza lacune, le fasi successive assommano ad un’espropriazione illegittima di quella ricchezza primigenia: la modernità è un furto, un che di illegittimo, il prodotto di un’espropriazione di un patrimonio altrui.
Quella roccaforte irrinunciabile
La riflessione di Blumenberg ha come bersaglio principale, in realtà, l’opera di Karl Löwith, e solo indirettamente quella di Schmitt, nel caso della quale, naturalmente, oggetto di disputa è l’affermazione secondo la quale tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati. Con il che vengono inaugurate molte deduzioni infondate: per esempio, che il Dio onnipotente è diventato l’onnipotente legislatore. È bensì vero, poi, che ogni rivoluzione si autointerpreta come creatio ex nihilo e che sembra ricalcare l’atto della creazione divina, ma è altrettanto vero che non esita a ricorrere selettivamente ad un serbatoio pagano e a forme di travestimento: come scrisse Marx nel 18 Brumaio, proprio quando gli uomini lavorano a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, «proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia».
A tutto questo le lettere ora rese disponibili non aggiungono novità clamorose. Liberalismo, tecnica ed economia congiurano, secondo Schmitt, ad annacquare l’immagine del nemico, ridotto a partner di discussione o a concorrente economico e perciò de-politicizzato. Ma non si può fare a meno di annotare che, dopo la morte di Schmitt nel 1985, Blumenberg ha sondato più volte la tenuta filosofica della coppia amico/nemico, che per Schmitt era una roccaforte irrinunciabile: e lo ha fatto con percorsi ed esiti che prima la de-politicizzano, poi la ri-politicizzano in un senso molto diverso. L’ostilità è una categoria politica, ma l’amicizia è una categoria antropologica: prende corpo in rapporti di parentela di sangue e fa del nemico ciò che rimane per esclusione. L’illusione dell’amicizia politica trasforma chi ne è escluso in un nemico, e con svantaggi tangibili che oggi non si traducono in una minaccia diretta di morte, ma possono essere mortali: dal difficile accesso ai mercati all’espulsione dal circuito delle informazioni. Il mondo è diventato più piccolo, ma proprio per questo si aggrava l’esplosività delle microdecisioni di non-riconoscimento che esso ospita e con cui conferisce lo stigma del nemico. Ora, la teologia è impegnata a delineare un’istanza che non può essere né antropologizzata né politicizzata: Dio non è né amico né nemico di nessuno. Chi cerca di alterare il dato artificiale di questo labile equilibrio facendo schierare Dio da una parte o dall’altra, lavora al servizio di guerre sante e genocidi e al tempo stesso fa della dedizione e della fiducia componenti prossime alla beatitudine celeste, non alla vita degli uomini.
Messaggi dallo spazio
È poi interessante osservare come Schmitt cerchi di catturare Blumenberg nel proprio orizzonte almeno nell’unico punto in cui quest’ultimo sembra essere ricettivo nei confronti del suo magistero. Le lettere, infatti, ci restituiscono uno Schmitt attentissimo agli studi di Blumenberg sulla svolta copernicana, ai quali viene riconosciuto il merito di avere «stellarizzato la Terra», in certo modo ri-sacralizzando la prospettiva. Lo sguardo di Blumenberg tendeva infatti ad antropologizzare e a «tellurizzare» il cosmo. Ciò che abbiamo tra le mani, al termine della frenetica decade astronautica sviluppatasi come gara sovietico-americana, è solo l’immagine della Terra dallo spazio. Si accavallano le delusioni: la curiosità cosmica si è spenta, l’interesse si è spostato dal mondo lontano a quello vicino, la direzione dell’attenzione da centrifuga è diventata centripeta. Subdolamente, l’astronautica ha ricostituito un quadro precopernicano e approntato il tripudio della Terra. L’umanità ha forse un’altra opzione oltre questo malmesso pianeta di periferia? Appartengono alla nostra identità quei paesaggi craterici butterati e quelle distese immense e ineloquenti che i messaggi fotografici dallo spazio ci hanno impietosamente restituito in tutta la loro monotonia? Dallo spazio la Terra si qualifica come nave appoggio: nave-madre, Mutterschiff. Ma il linguaggio astronautico non è esatto, perché è alla solidità del suolo terrestre, non ad una nave nell’oceano spaziale, che le astronavi tornano il più presto possibile.
Innamorato della terra e della Terra, Schmitt mette da parte tutte le asperità geopolitiche sullo spazio vitale hitleriano e raccoglie quella che a sua volta è una dichiarazione d’amore: alla resa dei conti, anche la fredda svolta copernicana ci consente di continuare a coltivare l’inarrivabile poesia del geocentrismo..
La delazione di Habermas
Tra i molti personaggi di secondo piano (si fa per dire: da Hans Barion a Erik Peterson) che si innestano sul tronco della discussione, mette conto ricordare un outsider come Jacob Taubes. Homo unius libri (Escatologia occidentale, 1947), rabbino, intelletto inquieto con una sua presenza nell’onda lunga del Sessantotto berlinese, Taubes fu spinto proprio da una lettera malandrina (24 maggio 1977) di Blumenberg ad accantonare imbarazzi e remore morali e a prendere contatto con Schmitt. Ne nacque una vicenda nella quale Taubes, con i suoi strumenti, cercò di snidare l’opera di Schmitt e di trascinarla in un quadro di critica dell’esistente. Di Blumenberg diceva: «è l’unico filosofo tedesco vivente che mi interessa», perché si occupa di metafore; di se stesso: «mi interrogo sul potenziale politico delle metafore teologiche, così come Schmitt si interroga sul potenziale teologico dei concetti giuridici».
Che dire? Anche l’agenda filosofica si rinnova a ritmi vertiginosi, oggi l’epistolario tra due frequentatori delle altezze supreme della cultura europea ci colpisce meno di quanto avrebbe fatto in un passato recente. L’eco di questi confronti è ormai attutita, a meno che non ci sovvenga, per esempio, la timidezza quasi autodelatoria con la quale Habermas concede a Ratzinger che la ragione secolare e lo Stato costituzionale hanno fondamenti normativi vacillanti e sono quotidianamente sospinti verso le regioni della trascendenza. La modernità anti-teologica ha sempre paura di vincere, anche perché sa di nascondere altre magagne. Lo stesso Schmitt sarebbe sconcertato dalla totale mancanza di solennità con cui non la teologia politica, ma la religione e le autorità ecclesiastiche intervengono, in quella Roma che fu sempre al centro del suo universo di pensiero, nel dibattito pubblico odierno. Ci rimane l’impressione di una diversa sensibilità di appartenenza disciplinare, pur nella comune trasversalità di interessi e di immense letture: Schmitt si autodefinisce con orgoglio un giurista, Blumenberg è stato soprattutto un instancabile indagatore di questioni cosmologiche. Per Schmitt un mondo senza politica è semplicemente volgare, pacchiano, invivibile. Da quando sappiamo che la politica è nel mondo, e non viceversa, e che tuttavia, o proprio per questo, ciò non impedisce alla politica di combinare disastri, all’opera di Blumenberg possiamo accreditare almeno una superiore longevità.
[da il manifesto, 17 aprile 2008]