Sotirios Pastakas. Il nomadismo della poesia
La vita, come la poesia, può trovare un inaspettato, “insolito fremito vitale”, proprio là dove crollano ponti, certezze, lontananze scambiate per ostilità.
La vita, come la poesia, può trovare un inaspettato, “insolito fremito vitale”, proprio là dove crollano ponti, certezze, lontananze scambiate per ostilità.
Il ponte, che nella lirica Sarajevo di Sotirios Pastakas unisce le due sponde del fiume Miljacka e permette alla gente di “camminare su e giù, incontrarsi e scambiarsi abbracci”, è anche l’immagine che più si addice alla sua idea e al suo appassionato amore per la poesia.
«Chiedi a me cosa sia la mia ombra» – osservava in una lettera all’amico Farolfi – «ma è facile risponderti; è l’assenza di mio fratello». Eppure era proprio nel vuoto di quell’assenza che, citando una massima di La Rochefoucauld, Pasolini osservava che (allora, e ora più che mai) il faut tenter de vivre.
L’utopia gode oggi di buona reputazione. Rispetto ai tempi in cui i « socialisti utopisti » passavano semplicemente per precursori del « socialismo scientifico » di Marx ed Engels, il rapporto si è quasi rovesciato. La speranza che « there must be a better world somewhere », come cantava B. B. King, non in’un altra parte del mondo esistente ma come possibilità futura, gioca senza dubbio un ruolo essenziale nei movimenti e nei momenti antagonisti di oggi e in tutti coloro che ancora non si arrendono all’idea che questa realtà è tutto quello che può esistere, perché « there is no alternative ».
In Expulsions – racconta Saskia Sassen – «mi concentro sui margini del sistema globale. Margine è un concetto differente da quello di confine geografico che qualifica ancora le relazione tra gli Stati nazionali. L’ipotesi dalla quale sono partita è la proliferazione dei margini di sistema — il declino delle politiche economiche che hanno caratterizzato le economie occidentali nel XX secolo, il degrado ambientale e la crescita di forme complesse di conoscenze che tradotte operativamente producono interventi di una brutalità elementare».
Con «Scrittori e massa», Alberto Asor Rosa si propone di aggiornare l’interpretazione radicale fornita mezzo secolo fa in «Scrittori e popolo». La tesi dello studioso è che il «popolo» sia definitivamente tramontato e che la protagonista sia oggi la «massa». Il discorso di Asor Rosa rifiuta però di confrontarsi realmente con la questione cruciale della trasformazione del ruolo dell’intellettuale. E finisce col fondere insieme nello spettro della «massa» dinamiche profondamente differenti.
Viviamo la perdita del futuro, la confisca della storia, la privazione della speranza. Tocca a noi produrre concetti e principi di cui gli attori politici e sociali possano fare uso nelle loro pratiche effettive. Si tratta di far emergere, dalle lotte e dalle iniziative collettive, un nuovo paradigma politico capace di riaprire il futuro. Un compito simile richiede un lavoro teorico senza concessioni, non chiacchere e posture, inchieste e indagini serie, non slogan o banalità.
Come definire la cecità di chi oggi lamenta la perdita di pensiero critico e non si rende conto di averlo mutilato, non da ora, di una materia enorme di esperienza individuale e collettiva, riportandolo inconsapevolmente dentro quello stesso ordine che avrebbe voluto modificare?
Mercoledì 18 aprile 1906, tra le cinque e quaranta e le sei del mattino, una scossa di recente rideterminata in 7,7 gradi della scala Richter, svegliò bruscamente la città californiana di San Francisco. Ventotto mila edifici devastati, molti dei quali a causa di eventi secondari, come gli incendi che si svilupparono in seguito al terremoto. Per contrastarli, non fu lesinata dinamite, aggiungendo distruzione a distruzione.
“Questo è il nostro finale d’epoca, il momento critico di relitti e derelitti del tempo e dello spazio della civilizzazione che invadono, accerchiano e penetrano al proprio interno e al loro esterno: sono percepiti come barbari tanto da chi è disposto o crede di essere disposto a includerli, magari per farli fruttare nel corpo esangue della civiltà occidentale, quanto da chi li esclude credendosi ultima barriera di difesa dei vecchi regimi della modernità”. Un dialogo a tutto campo con Alberto Abruzzese
Esiste un vero e proprio eros del giocatore che lo spinge verso il suo gioco verso il denaro, come un oggetto di desiderio: il perdente vede svanire la somma puntata, presa “dalla mano dell’altro, senza però far nulla per afferrarla”[8]. Come il debitore insolvente, di cui è il riflesso allegorico, così il giocatore sconfitto è dominato dal sentimento di colpa: “Allora dicono: ‘Ho giocato male’”, e la percezione della propria indegnità lo può spingere fino al suicidio. Del resto il gioco produce necessariamente debito ed è posto nella sua stessa costellazione.
«L’ex prete cattolico Paul Knitter ha cercato di ovviare al vuoto di una teoria della religione ridotta a imperativo categorico, per mezzo di una nuova sintesi tra Asia e Europa ben più concreta e più ricca». Così si esprimeva l’allora cardinale Joseph Ratzinger (Guadalajara, Messico, del maggio 1996) su Paul Knitter, uno dei più controversi, ma fecondi e influenti teologi cattolici dei nostri anni
Possiamo solo sederci lungo il fiume e goderci lo spettacolo nel prossimo futuro. Il problema è un altro: che ne è, che ne sarà dell’idea del mercato come rappresentazione di un ordine razionale e della competitività come disciplina che si esercita secondo regole ferree?
DI NELO RISI Lo studente di lingue: ovvero punto finale a un pianeta infernale, azione scenica di Nelo Risi dal testo originale di Louis Wolfson, Milano,…